marocco
Introduzione
Aggiornamento
Bibliografia
Miniguida
Progetti
Gallerie foto
Video
Racconti di viaggio
Ricette
Schede di approfondimento
Dizionarietto
      
Il Marocco di Carlotta


scarica il pdf
guarda la galleria fotografica


Carlotta e Monica
testo: Carlotta Fiandaca
foto: Antonella Bianco, Carlotta Fiandaca, djemme.com, Gianni Volontè, Irene Bronzo

1 – 9 agosto 2010

Se qualcuno mi chiedesse a bruciapelo cosa mi sono portata a casa dal Marocco e da questo viaggio direi la luce, il mistero, le donne, la strada, la magia, il rispetto.
Il Marocco ti chiama, e se senti che ti chiama prima o poi ci vai, ci devi andare. Il richiamo è forte, come quello della preghiera alle 4 del mattino che a volte è lunga e intensa, altre più breve o più lontana, ma è comunque inconfondibile. Mi sono lasciata guidare da quel richiamo e da quello che sentivo venire dal cuore: così ho scoperto il Marocco e questo modo di viaggiare, quasi per caso, come spesso accadono le cose importanti. Durante tutto il viaggio mi sono lasciata affascinare e trascinare dalla natura e dalle persone che ho incontrato, del mio stesso paese e di altri paesi. I marocchini, i miei compagni di viaggio, ma anche una ragazza francese, sconosciuta, che ad Agadir mi abbraccia appena esco dal mio bagno nell’oceano per sentire il fresco del mare e intanto mi chiede dove potrebbe ricaricare la sua macchina fotografica; è disperata e non può stare senza con tante belle cose da fotografare. Essere parte di quel mondo e di quel popolo, anche solo per una settimana, mi ha insegnato tanto; il Marocco ha tanto da insegnare, anche se spesso nasconde bene le sue meraviglie e bisogna avere la voglia di cercare per scoprirle.


interno della kashba di Telouet, con Mohamed


moschea di Tinmel, del XII secolo
(foto di Gianni Volontè)



tramonto a Tifnit, vicino ad Agadir
(foto di Gianni Volontè)



Hassan, scultore alla Vallée du Paradis
(foto di Carlotta Fiandaca)



a casa di Abderrahim e Hicham, Ait Melloul
(foto di Irene Bronzo)



mercato delle banane a Tamri
(foto di Irene Bronzo)



alla Cooperativa Femminile Tamounte
(foto di Irene Bronzo)



il marabut di Sidi Mbarak
(foto di Gianni Volontè)



Riad Tifaouine, Sidi Mbarak


la scuola di Sidi Boudarqa


signora in bianco
(foto di Carlotta Fiandaca)



al porto di Essaouira
(foto di Carlotta Fiandaca)



pranzo al mercato del pesce, Essaouira
(foto di Antonella Bianco)



zaino "firmato"
(foto di Carlotta Fiandaca)
Abbiamo vissuto la strada, in tutti sensi, attraversato villaggi, porte, mura, montagne, vallate; abbiamo incontrato gente a dorso di un asino, venditori di fichi d’india seduti vicino a una fonte d’acqua buonissima. E tutt’intorno la natura marocchina, selvaggia, brulla, calda. In Marocco ho visto le persone trasformarsi, ho visto un lord inglese alla fine del viaggio mangiare pesce con le mani e alla fine leccarsi anche le dita; siamo stati fermati alla giusta distanza da un uomo in preghiera perché noi donne eravamo troppo nude. Ho visto ragazzi giocare a calcio di notte in strada e altri rotolarsi giù dalle dune di sabbia per poi correre a lavarsi sotto una cascata; ho visto uno scorcio di quello che potrebbe essere il deserto e ho bevuto caldo tè alla menta in bicchierini di vetro seduta sulla sabbia con l’oceano davanti ai miei occhi. Ho visto dromedari comparire dal nulla e nello stesso nulla lentamente scomparire. Ho visto ragazzi bellissimi e occhi di donne scuri e profondi.

Tutte le donne marocchine mi hanno affascinata. Quelle con cui ho parlato e quelle di cui ho solo incrociato gli occhi passeggiando per le vie delle città e le stradine dei villaggi. I loro colori, i loro vestiti, le verità che nascondono, le storie che hanno da raccontare. A volte è difficile distogliere lo sguardo, magari da una donna completamente coperta che compera il pesce al mercato. Non vorrei guardarla così, ma è misteriosa, davvero bella. In realtà non si vede nulla, nemmeno le mani, nemmeno i piedi. Vivere tutto questo da vicino ha dell’incredibile e a noi ci vuole un po’ per abituarci, ma stando con loro, parlando con loro capisci di più e ti adegui, impari, ti adatti, ti trasformi un po’, che è a questo che servono i viaggi, a farci crescere, ad aggiungere esperienze da mettere nel nostro bagaglio, a integrarci senza snaturare e snaturarci. E quindi mi copro, a volte me lo suggerisce Monica, perché ci sono zone più tolleranti e abituate al nostro modo di vestirci (o di svestirci) e altre meno. Mi sono portata a casa i sorrisi e la forza delle donne della Cooperativa Agricola Femminile Tamounte dove producono l’olio di argan, venduto in tutto il mondo; la loro tenacia, la loro voglia di fare, per sé stesse e per il loro paese. Una bambina mi ha abbracciato forte quando sono partita da casa sua per una nuova meta e ho ammirato Fatima mentre mi disegnava con orgoglio sulla mano la stella della loro bandiera e il nome del suo paese, Maghreb, circondato di fiori. L’hennè sulla mia mano durerà esattamente quindici giorni, come previsto.

Il Marocco mi ha inculcato il rispetto per le tradizioni, profonde e radicate, per la natura e i suoi esseri viventi, tutti; mi ha messo faccia a faccia con la povertà e la fame, con la gente e le sue culture, le sue ricchezze, il lavoro artigianale e una religione potentissima. Lo avverti quanto è potente quando metti piede nella moschea, anche se non è più usata per la preghiera e per loro ha perso il suo valore sacro. È un luogo nudo, spoglio, niente colori, niente quadri, niente distrazioni, solo tappeti accatastati in un angolo. Il tempo e il vento le hanno mangiato il tetto. È possente e incute rispetto anche quella porta orientata esattamente verso la loro verità. La maestosità del niente e del tutto. E poi, appena fuori, un gruppo di ragazzi ci chiede una foto con una delle nostre auto, da mostrare agli amici. È buffo, ma questo è il Marocco, la sacralità, la fede, le tradizioni antiche convivono quotidianamente con la realtà e i piccoli sogni della gente comune.

Il Marocco è magico, Marrakech è magica. Ce l’ho in testa come un’amica da cui devo tornare, che ancora non mi ha raccontato tutto. L’ho vissuta e conosciuta meno di altre città e villaggi che ho attraversato, ma quella piazza è un luogo straordinario. Alla sera risuonano musiche e rumori, tutto è in continuo movimento, persone, artisti, ambulanti, mendicanti, giocolieri, omini dell’acqua, animali più o meno protetti, incantatori di serpenti e incantatori di donne; i colori si mescolano al grigio del fumo delle cucine in piazza. Di giorno la terra arancione scotta. Ci ho messo la mano, ho appoggiato un piede. Scotta. Nella medina ti potresti perdere, potresti entrare nel souk e non riuscire più a uscirne, come da un labirinto. Tutte le stradine della città a noi sembrano uguali, ci vogliono dei punti di riferimento, un negozio, una bancarella, una bandiera, un’insegna. Eppure ciò che a noi sembra confuso e confusionario per loro è ordinato e preciso, come la disposizione dei loro banchetti o i coni colorati delle spezie o le montagne di olive, che ancora mi domando come facciano a restare in piedi così. Di giorno si è circondati dalle persone, la gente ti parla, in arabo, in francese, ti mostrano cose, scarpe, borse. Lo spazio per camminare a volte è ridotto al minimo tra la mercanzia appesa, le teiere d’argento, i tappeti, forse magici, che penzolano colorati lassù in alto. E tutto intorno gli odori inebrianti delle spezie, del tè alla menta e dei narghilè accesi. Di sera, di notte o nelle prime ore del pomeriggio, quando ci si rinchiude in casa per il gran caldo, in quei momenti, quando è tutto chiuso, quando non c’è più niente e nessuno, per le stradine regnano un silenzio e una calma quasi surreali. Dove sono finiti tutti quanti?
Il caldo a volte è soffocante. Brucia la faccia, brucia il respiro, cammini rasente ai muri per trovare un po’ di ombra. Non si può stare con il capo scoperto. Non tanto per tradizione qui, ma perché si rischia di crollare. Le bottigliette d’acqua che ci compra Hassan, la nostra guida a Marrakech con i dirham nella sua tasca sono una visione. L’acqua è sempre preziosa, qui anche di più. È stato bello regalarla a quel pastore sulla strada per Taroudannt che abbandonato all’ombra di un argan teneva d’occhio le sue pecore.

La genuinità di questo popolo ti porta a essere come loro, a lasciarti andare, a rallentare e godere delle cose semplici, rare e preziose. Ho sentito nascere un’amicizia, tante amicizie; in viaggi così si creano legami profondi, che vanno oltre le distanze, i cellulari e le email, perché quello che lega sono queste profonde esperienze, questo sentirsi davvero tutti parte di questo mondo, così variegato e diverso in ogni suo angolo più remoto.
Mangiare insieme, con le mani, nello stesso piatto, a raccontarlo sembra niente, ma lì ti rendi conto che ha un valore profondo e che nel farlo ci sono riti e tradizioni; si è vicini, ci si tocca, ci si fida, si divide e condivide. Come alla casa della cultura, al villaggio di Imouzzer, un’indimenticabile cena in casa di Mohamed: è lui che ci insegna a fare le palline di couscous con le mani. Le sue sono perfette, noi ci sporchiamo e sporchiamo tutto. Lui ride, sembra burbero, è una persona incredibile, un saggio, un buono. O come a Essaouria, una città, tanti turisti, l’ambiente è completamente diverso, ma al mercato del pesce resta viva la genuinità di comprare il pesce e fartelo cucinare subito e come credi. Era buonissimo e noi eravamo felici. Condividere il buono, l’avanzato, il fritto, il cibo degli altri. Seduti schiacciati tra tantissima gente e avvolti dal fumo della griglia che incendiava quella zona sotto i portici. Contatto fisico ed emotivo puro. Siamo a tre ore dall’Italia. Sembriamo distanti anni luce. Eppure certe cose sono uguali dappertutto, in tutto il mondo, come l’amicizia. Ed è bello così. Una serata indimenticabile, ospiti di quattro ragazzi marocchini nella loro casa dipinta con colori rasta e paesaggi jamaicani. Trattati come amici di sempre, anzi meglio. Giochi di magia, risate, il tè alla menta. Condividere i sapori, gli odori e la vita vera del Marocco vero, lì come in quel souk con il parcheggio per gli asini. La confusione, le parole, le spezie, gli intrugli, gli animali, i polli, i gioielli finti, le pietre rare e preziose, la contrattazione, tipica marocchina, quasi d’obbligo per qualunque tipo di acquisto, tecnologia a parte.

Il Marocco ha una sua luce. Quella della mattina al riad dello scultore a Sidi Mbarak, quella alla scuola e al pozzo in costruzione di Sidi Boudarqa, col temporale in arrivo, montagne di argan dietro di noi e davanti il mare, la sabbia e le dune gialle. La luce durante quel viaggio da Taghazout verso Smimou: volevo, ma non riuscivo a togliere gli occhiali da sole, e non solo io. Era accecante. O la luce di quell’alba, nel riad di Said a Taroudant, a sbirciare da dietro la finestra, per non farmi vedere, per non disturbare gli uomini che andavano a pregare. Silenzio, si sente solo il rumore degli zoccoli degli asini sulla terra. E poi, più tardi, in terrazza a fare colazione con la luce del sole alto nel cielo.

Il buio e il silenzio del Marocco, il tempo che si ferma in un riad da sogno. Monica e Roberto ci raccontano storie, rituali, leggende, miti. E noi con questo viaggio ne abbiamo vissute alcune. Nel riad fatto di sassi colorati con un buco sul cielo pieno di stelle siamo elettrizzati e in pace con il mondo, re e regine di paesi lontani e misteriosi. Mi è scesa una lacrima quella notte col naso all’insù a guardare da quel buco. Era la meraviglia. Come quando ho dormito al villaggio dei surfisti, a Tagazhout, sulla terrazza blu a picco sugli scogli con Carlos e Gianni, avvolti nel sacco a pelo, guardando le stelle e ascoltando il mare.

Marocco è il mistero che sembra avvolgere tutto, la sabbia sembra sempre nell’aria, il cielo è sempre infuocato, giallo, come se qualcosa in lontananza bruciasse in continuazione. Ti aspetti sempre che esca una figura dalle dune, o dalle strade deserte e polverose, o dalla kashba mangiata anche lei dal tempo e dal vento. È patrimonio dell’umanità ora, come la piazza di Marrakech. Bianca e abbagliante una volta, ora sembra una vecchia saggia dai colori caldi, rosso, arancione, marrone, i colori della terra che l’ha formata. Quel silenzio, quel vento che fischiava tra i buchi nei muri e i vetri rotti sembrava sussurrare storie e leggende a cui Mohammed, la nostra guida lì, dava voce. Il mistero dei dromedari che spuntano dal nulla di quella sabbia e di quel vento che sembra volerlo spingere, quel dromedario così lento. Così lento, ma così tenace che gli devi legare le gambe tra loro quando è libero altrimenti cammina, cammina, e va troppo lontano.

Tutto questo mi sono portata a casa dal Marocco, tutto questo e molto di più. Non ultima la felicità di vedere il mio nome scritto in arabo sulla pellicola che dovrebbe proteggere il mio zaino per il viaggio di ritorno in Italia. Troppo pieno di cose preziose per non essere impacchettato. Anche se il bagaglio più pieno è sicuramente il mio cuore.

(foto di Carlotta Fiandaca)


Ultimo aggiornamento: 2010-11-28

Torna alla lista dei racconti